SERENA POESIA D'UNA CITTÀ VISTA DALL'ALTO
di
Mitì Vigliero Lami


 

Sognare di volare è per l'uomo un fatto ricorrente, così come il desiderare di poterlo fare per coprire brevemente distanze, evitare il traffico, staccarsi in qualche modo dalla realtà. Alla base di tutto però c'è il desiderio di vedere le cose in un'ottica diversa, sotto un'altra inquadratura: cambiare pensieri e convinzioni, o magari ribadirle.

Noi usciamo di casa, la mattina, ad occhi bassi; guardiamo dove mettiamo i piedi, al massimo solleviamo lo sguardo diritto di fronte a noi. Camminiamo spediti per strade che conosciamo a memoria, tanto da ignorarle: alzare il naso all'insù ci capita ben poco. Ma appena ci troviamo in un luogo elevato, ecco che ci fermiamo a osservare il panorama: sono saggi i gatti, che prediligono stare in alto, dominare, scrutare, per meglio capire...

Un tempo arrivare dal mare era l'unico e il più usuale modo per vedere una città come Genova in altra prospettiva, di solito entusiasmante per il visitatore. Joseph Autran, nel 1840, scriveva: "L'antica capitale della Liguria usciva dal Golfo con la sua Lanterna costruita su un piedistallo di roccia, coi suoi palazzi di marmo, i suoi forti, i suoi monasteri, le sue chiese, i suoi giardini verdi e le sue bellissime ville. Tutti i passeggeri del Faramondo guardavano ammirati..." A sua volta Charles Dickens nelle "Immagini d'Italia" annotava: "Potemmo scorgere Genova prima delle tre, e finché non fummo entrati nel suo porto maestoso, rimanemmo ad osservare lo sviluppo graduale del suo splendido anfiteatro, nel quale i ripiani sono i giardini sopra i giardini, i palazzi sopra i palazzi e le alture sopra le alture..."

Seguendo una prospettiva ancora diversa, con questo libro Roberto Merlo (e mai cognome fu più appropriato per un fotografo "volante") ha voluto regalarci una Genova vista con gli occhi di un uccello.
Ma per descriverla così ci vuole solo un poeta; e Merlo indubbiamente lo è. Guardare attraverso i suoi occhi - i suoi scatti fotografici - procura vere sorprese; scoprire le vere forme delle case, delle chiese, delle ville e domandarsi in molti casi come diavolo abbiano fatto ad incastrarle fra loro, come in un sorprendente puzzle. Notare forse per la prima volta in vita nostra la presenza di giardini nascosti all'interno dei palazzi, tessere turchesi di piscine celate nel verde di olivi e cipressi, terrazze piene di fiori e gazebi in ferro battuto. E divertirsi per ore a studiare le fotografie seguendo le strade con un dito, contando i tetti delle case per cercare d'individuare la nostra; comprendere che le distanze sono relative, dall'alto tutto sembra più vicino. E' rasserenante in qualche modo sapere che chi amiamo non è poi così lontano e che magari, tagliando per una scaletta o una viuzza di cui ignoravamo l'esistenza, anche l'ufficio si potrebbe raggiungere senz'auto.

Non solo, ma Merlo, come un gentile Virgilio guida di un viaggio esclusivo, ogni tanto ha abbassato un poco il suo volo per raccontarci più da vicino qualcosa di bello, che così sembra ancora più bello: le chiese di San Matteo e Carignano, il grattacielo di Piacentini in piazza Dante, la Torre Groppallo a Nervi, gli antichi Forti che sembrano osservare con sguardo perplesso ma indulgente il modernissimo Bigo di Renzo Piano al porto...

C'era un altro genovese che invitava a vedere le cose dall'alto: Eugenio Montale, coi suoi falchi citati molto spesso nelle poesie. Ma il falco alto levato era il simbolo dell'indifferenza, divina certo, ma sempre indifferenza: mentre non si può restare freddamente distaccati nel vedere Genova ritratta in questo modo, bella da star male. Se toglie il fiato osservare lo splendore di alcuni quartieri già notoriamente considerati raffinati quali Albaro, Castelletto, Quarto o Nervi, quello che più stupisce è vedere scorci che appartengono a zone industriali, le cosiddette "degradate", colate di cemento, grovigli di metallo, disarmonici paesaggi che invece, osservati dal cielo, rivelano un aspetto magico, poetico; come il mare che sappiamo sporco, quello del porto, colto con riflessi di luce che lo tramutano in cangianti fette di mercurio liquido...

È la vera funzione consolatoria della fotografia, lo "statuto della stampa" di gozzaniana memoria: fermare la realtà, renderla immortale, incorruttibile, sempre sorprendente, importante solo per il fatto di esistere, qualunque essa sia. Ed a ogni immagine corrisponde un ricordo, si srotola il filo della memoria come in un gioco dell'anima. Ritrovare, attraverso una proustiana récherche compiuta non attraverso un biscottino all'anice, ma le foto di quartieri, strade, palazzi che rinnovano persone, amici, fatti, parole: brandelli della nostra vita che credevamo perduti. E ciò fa guardare Genova con un'attenzione nuova.

Genova col porto che ti accoglie come un abbraccio spalancato; con piazze come Corvetto che vista da lassù sembra il perno di un ventaglio di strade aperto sul turchese del mare.
Vedere la Foce, che i foresti non capiscono perché mai si chiami così, e scoprire che è a causa di un fiume che a un tratto scompare coperto da viali e giardini; ed abbinare all'immagine le parole del recitativo "La nostra spiaggia" di Bruno Lauzi, che alla Foce è nato ed ha passato gli anni più belli della giovinezza:

"Ricordo che c'erano solo i relitti delle chiatte da sbarco,
quello che era il parco giochi di chi sognava l'avventura
e lungo tutta la Foce l'acqua era limpida e pura
e sugli scogli i pescatori avevano la mano sicura:
è così che tanti anni fa era il nostro quartiere..."


Vedere Boccadasse, sorpresa sempre nuova, intatto borgo pescatore in riva al mare, superstite glorioso alla civiltà urbanistica e romantico testimone di un tempo che fu. E osservandola così ritratta nella sua pace, si capisce che Roberto Merlo ha voluto fotografare anche i pensieri di Edoardo Firpo:

O Boccadaze, quando a ti se chinn-a
sciortindo da-o borboggio da çittae,
s'à l'imprescion de ritorna in ta chinn-a
o de cazze in te brasse d'unna moae.
Pa che deslengue un po' l'anscia da vitta
sentindo come lì s'eggian fermae
ne-a bella intimitae da to marinn-a
a paxe antiga e a to tranquillitae.


Ecco, tranquillità è la parola esatta; pura serenità il sentimento che si prova a guardare Genova immortalata dall'alto.
Immergersi nei suoi colori; colori tenui, nulla di urlato: cipria, terracotta, cenere, albicocca. E pistacchio, sale, pepe, zafferano, un pizzico di cannella: quelle "droghe" un tempo così amate dagli antichi mercanti di qui, spiccano ancora nel paesaggio con funzioni di chiaroscuro.

E scoprire così che la luce di Genova è dolce e lenitrice di grandi tormenti.
Di giorno, un giorno magari sferzato dalla tramontana, la luce è vitale, tutto sembra nitido, lavato di fresco e si rischiarano anche le idee, si raffreddano le rabbie, svaniscono le nebbie della malinconia.
Invece la luce della sera ricopre per un lungo attimo di rosa confetto le facciate e d'argento le centinaia di tetti d'ardesia, facendoli luccicare come altrettante scaglie di mare. Dino Campana, grande poeta grande tormentato, così descriveva quella di piazza Sarzano: "L'aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate..."
Dolce e lenitrice è pure la notturna luce di Genova, quando sulle alture si accendono lumini da presepe, mentre il porto e il lungomare indossano i loro gioielli più belli che riflettono sull'acqua lunghe catene scintillanti, palpitanti scie d'oro e diamanti...

Questo è un libro dedicato ai genovesi che abitano a Genova, che così potranno dire di conoscerla davvero bene; quelli che, come ho detto all'inizio, camminano col naso a terra, ma appena possono corrono a Spianata Castelletto con la scusa di un gelato, o s'inerpicano sul Righi col pretesto di fare quattro passi: in realtà tutti per guardarla dall'alto, e sentirsi gabbiani per un po'.

È un libro dedicato ai genovesi lontani da Genova, al loro rapporto odio amore nei riguardi di una città che molto spesso ha costretto i suoi figli ad andar via, per trovare lavoro altrove. Ma ben presto in questi, stabiliti nel cuore frenetico di altre metropoli da quel punto di vista forse più generose, il rancore scompare e prevale nell'anima il virus della Lanterna, quello che ti fa commuovere se guardi la tv e senti parlare di pesto, o captare il profumo del mare anche sulla metropolitana o inseguire per strada due sconosciuti dall'accento tanto simile al tuo; per sfociare infine nel continuo, profondo desiderio di tornarci a vivere, un giorno o l'altro, quando si potrà.

È un libro fatto apposta per chi, essendoci stato magari solo una volta per prendere un traghetto o vi ha fatto un solo rapido salto per affari, il classico stazione-ufficio-albergo-stazione, di Genova conserva un ricordo distratto o grigio; ed infine è un libro nato per chi Genova non la conosce affatto, e magari la immagina o ne parla basandosi su vecchi e ritriti luoghi comuni che non hanno più nulla di vero, o quasi, ma che di certo non immagina quanto sia speciale, e bella da star male, guardata con gli occhi di un uccello.

Non so cosa darei per potere, attraverso una magia, mostrare trionfante queste pagine a Heinrich Heine che nelle Impressioni di viaggio nel 1828 scriveva lugubre "Vista dal mare, la città fa un'impressione migliore, distesa sulla spiaggia come lo scheletro bianco d'un gigantesco animale ricacciato là dalle onde..."; o a Montesquieu, che di Genova riportò impressioni a dir poco acidine, o a Dante Alighieri, ancor più feroce... Ma poi penso che, in fondo, loro ormai da tanto tempo Genova la vedono ogni giorno da Lassù. E scommetto che si sono ricreduti.



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